giovedì 21 ottobre 2010

DOPO IL NOVECENTO: dal MANIFESTO per SEL

 Il Novecento è finito. La contesa generale che ne ha scandito il calendario storico è stata quella tra Capitale e lavoro: sterminate plebi hanno fatto il proprio ingresso sulla scena pubblica, si sono date la forma e la cultura di un proletariato maturo, hanno plasmato la vita e lo stile delle nostre democrazie, hanno rotto il gioco secolare dello schiavismo e del colonialismo.
Il Novecento è finito con la sconfitta del lavoro e la vittoria del nuovo Capitale finanziario. Tra le sue macerie rischia di rimanere sepolta la speranza di una società di “liberi ed eguali”.
La sinistra novecentesca è stata la proiezione sulla scena pubblica di una planetaria spinta di emancipazione sociale e di liberazione umana.
Nell’esperienza storica degli Stati comunisti quella spinta è stata invece soffocata e capovolta, e all’annuncio del “regno della libertà” si è sostituita la cortina di ferro e la pedagogia dei gulag. Anche le socialdemocrazie, che hanno realizzato uno straordinario compromesso tra i diritti del lavoro e il mercato capitalistico, sono state travolte dalla forza rivoluzionaria che la nuova destra conservatrice mondiale traeva dalla crisi vorticosa dell’Est.
L’individuo, maschio e occidentale, compratore e venditore è il protagonista del mondo-market post-novecentesco. Un mondo soffocato dai gas serra, assediato dal cemento, avvelenato, desertificato, in piena crisi entropica.
Una modernità virtuale e veloce, incapace tuttavia di fare i conti con le proprie ascendenze arcaiche :
- gli effetti perversi del patriarcato in crisi e il riproporsi del maschile come primato, che intende sussumere il “femminile” come corredo e cornice, come allusione o “quota rosa”.
- il regresso a forme del diritto che riscoprono il fascino di una legittimazione legata alla stirpe, al sangue e alla terra.
- la criminalizzazione dei poveri, nelle forme di uno “Stato penale sovrannazionale” che usa i migranti come regolatore del costo del lavoro globale e come capro espiatorio di qualsivoglia psicosi sociale causata da qualsivoglia crisi.
- l’espulsione delle giovani generazioni dalla costruzione di futuro, in quanto la precarietà diviene un tema unificante l’intero tempo di vita.
C’è un dolore incontenibile nelle forme antiche e nuove della “questione sociale”,  dei lavori frammentati e orfani di tutela, nello smottamento dei ceti medi verso le sabbie mobili dell’incertezza e dell’impoverimento.
C’è un dolore straziante nello sfibramento della democrazia e delle sue istituzioni, nella crisi del costituzionalismo democratico, e nel violento precipitare in un “vuoto di democrazia” colmato dalla videocrazia, dalla censura di Stato, da poteri opachi che si auto-legittimano nei modi di un moderno populismo reazionario.
C’è un dolore inedito nella percezione della dissipazione irreparabile di vita e civiltà che si consuma nell’oltraggio alla biodiversità e nell’aggressione mercificante alla natura.
Qui c’è per intero il senso e il bisogno della sinistra. Non la sinistra delle nostre biografie intellettuali, di tutte le nostre scissioni, del cumulo di torti e di ragioni che ciascuno di noi si porta addosso. La sinistra che raccoglie e moltiplica domande di libertà e di eguaglianza oggi più che mai soffocate e manipolate. 
Ecco : noi vogliamo aprire il cantiere, non vogliamo chiuderlo. Vogliamo riaprire la partita, prima ancora che aprire un partito.
Vogliamo farlo in un percorso nuovo, in cui i luoghi che costruiremo non hanno la presunzione di essere autosufficienti e definitivi. Vogliamo un soggetto politico, ecologista e libertario, proprio per costruire un’alternativa al moderno capitalismo, che ci metta in cammino, che ci aiuti a incontrare tante e tanti che come noi, ma diversamente da noi, cercano il vocabolario della sinistra di un secolo nuovo.

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