giovedì 30 maggio 2013

"IL MIO RICORDO DI FRANCA RAME" di Gigi Lunari

Di un grand’uomo si dice che dietro di lui vi sia sempre una donna. Ma questa affermazione va stretta a Franca Rame, che al suo grand’uomo – a Dario Fo - fu semmai al fianco: raramente dietro, a volte addirittura davanti, come ogni volta che l’impegno politico li portava a fare i conti con la battaglia per la dignità e la libertà stessa delle donne. Battaglia per la quale Franca pagò personalmente un prezzo assai alto, a tutta riprova – se mai ve ne fosse stato bisogno – di quanto l’oppressione maschilista coincidesse con l’inciviltà di una posizione politica indegna non solo dei nostri tempi, ma della natura stessa dell’umanità.

Dario e Franca li ho conosciuti sul finire degli anni ’50 del secolo (e del millennio) ultimo scorso. Lui era già quel che poi sarebbe apparso agli occhi di tutti; lei era bellissima! 
Sul palcoscenico si stava adattando ai ritmi di lui, a volte forse arrancando un poco, e dando il meglio di sè nei monologhi, intesi come libera chiacchierata col prossimo suo; ma era evidente l’influenza  che essa esercitava su Dario, nei momenti creativi, fino a quel capolavoro che è “La signora è da buttare”, (del 1967), dove il finale del primo tempo, poeticamente allusivo dell’omicidio di Kennedy, vedeva lei, Franca, abbandonare il corpo a un trapezio che entrava in scena come un pendolo senza vita, in un  impressionante, assillante, assordante silenzio. Dovessi scegliere, dalla mia lunga esperienza di spettatore, le cinque immagini più folgoranti, questa sarebbe certo una di quelle.

Franca ora se ne è andata, e io cerco di mascherare sotto queste parole di razionale analisi, l’emozione che mi coglie. 
Ricordo quando tutti e due sbatterono la porta della RAI, dopo le censure a Canzonissima, e si esiliarono da quella che era una grande fonte di popolarità e di benessere.  Ebbene, oggi che la storia li ha consacrati, insigniti di quel prestigioso riconoscimento che è il Nobel (dico “insigniti”, al plurale pour cause), può essere facile trincerarsi dietro il detto che “tutto è bene quel che finisce bene”. 
Ma al momento, quell’andarsene fu un atto di coraggio che poteva anche essere un suicidio sotto molti profili: solo che Dario e Franca avevano una “fede”, e che questa li sorresse e alla fine li fece vincere. 

Ancora potrei dire di come fu Franca – a quanto mi è dato sapere – a consigliare l’atteggiamento da assumere alla consegna del Nobel: quando Dario – giustamente pago di quella motivazione che esaltava la sua (e di Franca) indipendenza di fronte al potere – si adattò con estrema eleganza al cerimoniale di rito, con quel suo sorriso impercettibilmente beffardo, e i suoi accennati inchini ai vari angoli del mondo. Dietro questo, lei: che da Milano era volata a Stoccolma, sospendendo per un giorno il suo spettacolo con Giorgio Albertazzi, presente con pieno merito – anche se, stavolta sì: un passo indietro! – a quella sorta di incoronazione. 

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