lunedì 31 gennaio 2011

DAL MAGHREB UN MESSAGGIO PER L'ITALIA E L'EUROPA

Non si placa l’onda di protesta in Egitto, sulla scia delle mobilitazioni che in Tunisia hanno portato alla caduta di Ben Ali, e il virus della democrazia si sta allargando ad altri paesi, quali lo Yemen e la Giordania, per poi riprendere forza in Algeria dove è annunciata una nuova grande mobilitazione popolare contro il regime. Per non parlare poi dell’Albania, e della sempre rovente Grecia.

Un sommovimento che ha le parvenze di uno storico passaggio di fase, nel quale si rielabora e si ricostruisce dal basso senso comune e democrazia.
E’ il caso dell’Egitto, i cui eventi di questi giorni non nascono dal nulla, ma da un malcontento diffuso e di lunga data, già manifestatosi in passato con forti mobilitazioni di piazza.
Gli egiziani hanno deciso di prendere in mano il futuro del paese, sanno bene che il vecchio Mubarak è ormai al capolinea e non sono intenzionati ad accettare come un fatto compiuto la successione del figlio. Il popolo egiziano, come quello tunisino, si sta facendo forza costituente, s’inserisce nelle crepe di un sistema corrotto, e lo vuole capovolgere per rifondare le strutture ed i modelli di governo. In ambedue i casi colpisce la posizione delle potenze occidentali alle quali Tunisia ed Egitto erano storicamente legati: la Francia si sgancia dal regime di Ben Ali e Washington si schiera “dalla parte del popolo egiziano”.

Dall’altra parte in Albania il regime di Sali Berisha scricchiola sotto la spinta dell’opposizione di sinistra, in una contesa che non pare – a differenza di quel che si vede dietro le barricate e le fiamme del Cairo o di Tunisi – volta ad una profonda ricostruzione della sfera pubblica.

Certo è che alcuni comuni denominatori possono essere evidenziati.
Anzitutto il fallimento della politica europea nei confronti del Mediterraneo, che sulla carta avrebbe dovuto portare prosperità e democrazia ed invece si è dimostrata essere un mix micidiale di liberalizzazione degli scambi commerciali, e di mano pesante contro i flussi migratori.
Poi il combinato disposto degli effetti della crisi finanziaria che colpisce come un maglio società come quella tunisina già duramente provate da anni di ricette neoliberiste imposte dal Fondo Monetario Internazionale. A questo si aggiunge la riduzione progressiva dei flussi di rimesse dei migranti, che per molte famiglie rappresentavano una delle principali fonti di sostegno, di fronte alla disoccupazione endemica soprattutto nelle generazioni più giovani.
Aggiungiamo a questo il potere tremendo del web. Qualcuno ha chiamato i fatti di Tunisia la rivoluzione di Wikileaks. Più di questo va sottolineata la capacità del web di permettere la comunicazione oltre la censura ed il controllo di polizia, la possibilità di costruire un sentire collettivo, pratiche e culture politiche tra popoli e generazioni accomunati oggi dalla stessa disperazione e voglia di riappropriarsi di persona del proprio futuro.
Al di là di ogni facile retorica, oggi dovremo anche noi sentirci tunisini o egiziani, riconoscendo che forse da quelle città in fiamme sta partendo un messaggio, un’invito anche verso l’altra sponda del Mediterraneo. Là dove i giovani Maghrebini vengono lasciati languire in una banlieu, in un centro di identificazione ed espulsione, ammanettati in un aereo charter, o a sudare dietro un forno a legna. E dove noi, cittadini di un’Europa e di un paese in crisi di identità stiamo vivendo, fin troppo passivamente, gli effetti di una crisi politica, culturale ed economica senza precedenti.

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