Lo sciopero generale avrà significati molto chiari e importanti: cambiare le politiche del governo sul lavoro, i giovani, il fisco e il mezzogiorno.
Per far sì che la crescita economica del paese venga spinta verso l’alto, la prima cosa da fare sarebbe quella di indirizzare risorse nelle reti, nelle infrastrutture e nei servizi, incentivando il campo delle energie rinnovabili, mettendo da parte una volta per tutte e non solo temporaneamente, l’idea scellerata del nucleare. Concentrare gli interventi sulle opere pubbliche strategiche e quelle piccole opere sui territori ad opera degli enti locali.
Un paese, con un governo che non ha in mente una politica industriale, è un paese che non fa molta strada. Se lo stesso Marchionne afferma di esser stato lasciato solo dal governo, c’è da essere stupiti.
E’ necessario aiutare le piccole e medie imprese con politiche fiscali di favore.
Puntare sull’istruzione, l’innovazione e la ricerca. La base di partenza è questa.
Per rimettere in moto l’ economia e di conseguenza la crescita di un paese, si chiede a tutti i protagonisti della società italiana di contribuire a risollevare le sorti del paese in modo adeguato e progressivo per tutti.
Premettendo che i salari lordi italiani sono tra i più alti dell’area euro, ci supera solo qualche paese del nord Europa e che nella classifica dei salari netti siamo quasi all’ultimo posto, ecco come si dovrebbe agire per rimettere le cose nel verso giusto:
- Rivedere il sistema delle aliquote fiscali verso il basso.
- Recuperare risorse mettendo in campo le misure più efficaci per diminuire l’alto tasso di evasione che c’è nel nostro paese, coinvolgendo gli enti locali.
- Rivedere verso l’alto la tassazione sulle rendite finanziarie.
- Istituire l’Imposta sulle Grandi Ricchezze, ispirata al modello francese, denominata imposta di solidarietà sulla fortuna, che prevede un’imposta mediamente dell’ 1% sulla ricchezza netta delle famiglie con una ricchezza netta complessiva al di sopra degli 800 mila €. Dalle stime e dai calcoli effettuati dal Dipartimento delle Politiche Economiche della CGIL, le famiglie interessate dal provvedimento sarebbero 1.208. Il gettito potenziale si aggirerebbe intorno ai 17 miliardi annui.
- Nel luglio 2010 vara una manovra economica che deprimerà ancora di più i consumi e di conseguenza la crescita.
- Blocca fino al 2014 i rinnovi contrattuali (decentrati e nazionali) per i dipendenti pubblici.
- Nell’istruzione i tagli continuano e continueranno con ripercussioni in termini di occupazione per gli ultimi della classe: i precari.
- Per le lavoratrici del settore pubblico l’età pensionabile è stata portata da 61 a 65anni.
- Viene aumentata l’età pensionabile per tutti, con l’istituzione della finestra a scorrimento da un minimo di 3 mesi ad un massimo di 18. A regime invece, l’età di pensionamento sarà collegata automaticamente all’aspettativa di vita.
Per chi è già in pensione, si invoca la rivalutazione della rata in modo adeguato.
Per i futuri pensionati, si chiede il ripristino della flessibilità dell’età pensionabile garantendo alla pensione un tasso di sostituzione almeno del 60%.
Nella sanità viene reinserita la social card che ha costi di produzione e distribuzione maggiori rispetto ai benefici che porterebbe.
Vengono ridotti i fondi destinati alle politiche sociali e alla sanità.Insomma, che i più deboli si arrangino pure.
E, attenzione perché non è finita, ce n'è anche per la generazione senza futuro, quella invisibile, quella dei precari, laureati con lode, spesso con un master, eppure costretti a migrare da un posto di lavoro all’altro con contratto di lavoro a tempo determinato.
E’ inconcepibile che nell’Italia di oggi 2 persone con 2 contratti di lavoro precario non abbiano la possibilità di acquistare una casa per vivere in uno spazio comune e di scegliere di avere dei bambini.
Dopo questo spaccato di realtà, non è troppo chiedere la riduzione a 4 delle forme di lavoro diverse dal tempo indeterminato, l’aumento dei costi del lavoro precario per diminuirne l’utilizzo da parte delle imprese, contrastare l’assunzione dei finti part-time e dei finti stage e l’estensione anche a tutti i giovani precari del sistema degli ammortizzatori sociali.
E’ chiaro che per fare tutto ciò, ci vuole una volontà politica ed il rilancio del ruolo dei contratti e della contrattazione.
A tutto questo, è legato il discorso della democrazia e della rappresentanza nei luoghi di lavoro, sopratutto dopo le nuove modalità di concepimento dei contratti collettivi nazionali di lavoro, sottoscritte nel gennaio 2009 da tutti gli altri attori con l’arretramento giusto e doveroso da parte della CGIL.
Non firmare contratti per la Cgil sta diventando un problema enorme, ed è chiaro che se un contratto aziendale o di territorio può derogare a delle norme contrattuali nazionali, così come è successo alla Fiat di Pomigliano e di Torino o per ultimo come nel contratto del Commercio, è evidente che delle regole condivise e poi un decreto legislativo ad hoc, permetterebbero di uscire dal far west attuale.
Quando sono gli altri a chiedere il referendum è tutto regolare, quando lo chiede la Cgil, non se ne parla proprio.Inoltre la rappresentatività di un sindacato deve essere regolata dal numero degli iscritti, dopo una conta certificata e non dal fatto che i contrattti si firmino o no.
Qui c’è di mezzo la Costituzione, che sancisce che la democrazia del lavoro è un diritto fondamentale, che regola la coesione sociale e la qualità della crescita di un paese.
Per tutti questi motivi, il Popolo della Cgil, venerdì 6 maggio scenderà in piazza, in tutta Italia, in difesa della Carta costituzionale e dell’autonomia di tutte le istituzioni, politiche e sociali.
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